Un’altra poesia – di Petarda

Appuntamento con un amico e i suoi giovani allievi aspiranti poeti in un caffé letterario del centro. Arrivo, un po’ in ritardo. Avviso il gruppo in cui svetta l’alto amico mio in versione “Capitano, mio capitano”, che – prima di – voglio salutare altri amici nella saletta accanto.
Siedo a un tavolino con una decina di persone che stanno per andare a un concerto; finiscono di succhiarsi chi un vino chi una birra e se ne vanno dopo pochi minuti. Io rimango con Simonetta che al concerto non ci va.
Nel frattempo è entrato Rashid che vende le rose e mi chiede una Fortuna in cambio di una delle sue Pall Mall. È marocchino e mi stupisco: all’apparenza e non solo per mestiere lo credevo pakistano come la maggior parte dei venditori di rose, anche lui gli ha occhi grandi e profondi e la pelle color caffellatte. Iniziamo a chiacchierare e dopo poco si piazza accanto a me e alla Simo. “Pensavo che fossi pakistano”, faccio, e lui inizia a dirmi che coi pakistani si sono spartiti il territorio, tu in quel locale lì, io in quello là, fino a quell’ora ci vado io e dopo tocca a te. In quella si palesa Marianna, 60 anni, matta furiosa, grande coraggio e anima a pelle. La conosco di già, Marianna dalle gravidanze isteriche, dal lavoro dotto e dalla saggezza infinita, Marianna che a casa sua ospita tossici e puttane, Marianna con figlie e nipotini “normali”, Marianna che ha smesso di andare dallo psichiatra da quando tutte le sere scende al bar sotto casa e scambia due parole con qualcuno. Sa un sacco di cose, lei; è antropologa, anche se sembra una barbona. Adesso, come spesso accade in ambiente universitario quando un dipendente va fuori di testa, occupa un posto di scarsa responsabilità e di visibilità nulla. Dice di essere la Grande Madre, e una volta mi ha fatto toccare la sua pancia; è fissata con l’esoterismo, con le streghe e i poteri occulti. Alle volte s’incazza e non si capisce perché; forse segue un suo parlottìo dal di dentro, forse su certe cose non le tornano i conti. Forse ci vede benissimo. Ogni tanto la osservo, lei mi prende la mano, sorride, e mi salgono le lacrime agli occhi. Basta poco a farla felice: l’angioletto del presepe che le ho regalato a natale è diventato il bambino che abortì decenni fa. Un segno, dice. Che io la capisco. Che io sono buona. Che anche io vedo. Non so bene.
Simonetta se n’è andata, dopo esser stata rassicurata da Marianna che anche lei possiede l’Energia. Le ha fatto congiungere i palmi delle mani, le ha chiesto se allontanandoli poco a poco sentiva calore. Risposta positiva, esame superato.
Io un po’ ci credo a ‘sta cosa, la Simo non saprei. Una volta mi ha detto che sono l’unica amica a cui potrebbe raccontare che un mostro verde si annida nella sua lavatrice. Non perché l’abbia (credo). Ma, in caso.
Marianna e Rashid non si guardano, non si parlano. Ognuno dei due cerca di monopolizzarmi. Rashid riprende a raccontare; arriva in Italia nell’88, si regolarizza, inizia a fare ogni sorta di lavoro, anche se ha frequentato l’università, dice. Adesso vende rose e ha lo sfratto.
Racconta un poco della vita in Marocco, vuole capire i comportamenti troppo aperti delle donne di qui, vuol sapere perché gli omosessuali non si nascondono; suo fratello è sposato con un’italiana convertita all’Islam.
Dico poco o nulla. Guardo Marianna che fatica a tacere, ma Rashid è bravo a stopparla. Poi lei si gioca l’ultima carta e dice che sta studiando la storia del Marocco, ma fa confusione fra toponimi vari; la geografia non è il suo forte. Allora Rashid si arma di carta e penna e disegna il suo paese: le città, Marrakech, Rabat, Casablanca, poi il Rif, il deserto, le campagne dell’interno. Marianna è felice, il disegno è per lei.
I gestori del bar mi fanno segno, non capiscono come possa star bene con questi due. Invece non sto bene, sto da dio e mi dimentico di me. Toh: forse Marianna ha una casa per Rashid. Una soffitta non abitabile, a costo zero. Rashid è incredulo. L’alto amico mio ha una rosa per me. Se ne arriva dalla sala poetica con un mezzo sorriso interrogativo e me la porge. Peccato l’abbia comprata dalla concorrenza. E, a proposito, io stasera ho ascoltato un’altra poesia.
Non saprò mai se Rashid ha traslocato nella soffitta di Marianna o anche solo se si siano rivisti. Probabile che non sia uscito fuori niente da questo incontro, pilotato più da me che da dio, mi vien da dire, e poi comunque pure allah, dal suo cantuccio, magari si sentiva trascurato. Ma nel qui e ora siamo stati bene, abbiamo recitato la nostra parte senza strafalcioni, e adesso possiamo tornare a casa, chi nella topaia del fratello, chi nell’alloggio pieno di gatti e masserizie e colori secchi, chi nell’appartamentino in finto ikea style. 

Una risposta

  1. bella prosa *nature*, semplice discorsiva eppure ricca di sfumature sottese/accennate.
    particolare il fluire della tua sensibilità quasi-poetica mentre nella sala attigua stagna la “poesia”.
    forse la chiusa è troppo pilatiana, anche se urtica nello sviluppo dei *chi* dotati di dimora versus la sepsi da morso di sf-ratto.
    ché, inevitabilmente, nell’altrove e nel poi, aleggia il mesto e impietoso “the show must go on”.
    molto bene.
    (refuso: anche lui gli ha occhi)

  2. …topaia del fratello…alloggio pieno di gatti e masserizie…
    appartamentino in finto ikea…

    tutto firmato
    dal famoso architetto però,
    Poèsia Petarda,
    come anche la “saletta accanto…”.

    bisousgriffés!

  3. http://petar[..] Bieca autoreferentialia La settimana scorsa se non ricordo male il Brezny diceva che il mondo era in debito con me e dovevo trovare la maniera di chiedere diplomaticamente quanto mi spettava. E’ una cosa che non mi piace fare: non mi piace reclamare, [..]

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